Alcuni aspetti del viaggio II - La nostalgia del viaggio di Kipling

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L’altro giorno ho chiesto a una mezza dozzina di uomini scelti a caso quale immagine facesse venire loro in mente la frase: “Egli è andato al Capo di Buona Speranza.” Tre o quattro di loro, che non vi erano mai stati, mi hanno risposto che essa evocava in loro l’immagine del veld, ispirata forse a una fotografia composita e non ben definita di qualche rivista illustrata. Uno disse che vedeva la linea di confine marrone rossiccia che sul suo atlante segnava il confine della Colonia del Capo. Un altro, che faceva regolarmente quel tragitto, mi indicò la curva del percorso del transatlantico diretto a sud, così com’è segnata sulla carta marittima. Nel suo linguaggio mentale, quel segno indicante la direzione del viaggio era un modo per tradurre in discorso il diagramma mentale. Se fosse stata chiesta la stessa cosa al nonno di quell’uomo, supponendo che egli avesse lo stesso carattere e lo stesso tipo di esperienza del nipote, egli avrebbe imposto alla linea una conversione verso ovest, fino a farla passare vicino alle coste del Brasile, per proseguire poi verso sud con una lunga linea obliqua. Se si ponesse questa domanda al figlio di quell'uomo, egli non descriverebbe più la curva. Per lui, essa avrebbe meno significato di quanto ne abbia per un automobilista dei nostri giorni la salita verso Salisbury della vecchia strada per diligenze.

Il disegno mentale di questo viaggio sarà per lui una linea diritta leggermente inclinata verso destra -  da 51° nord a 33° sud e 15°, o quel che è, est. La  sua concezione del tempo – quel diagramma indescrivibile che nasce nella mente dell’uomo nel momento in cui si menziona un viaggio di lunghezza conosciuta – sarà ridotta a un piccolo blocco, un grano, un’ombra rappresentante quaranta o cinquanta ore. E sarà così per tutti i viaggi. Per la maggior parte degli uomini d’oggi la stenografia mentale di un viaggio in India è rappresentata da quattro segni a zig zag: Londra- Gibilterra; Gibilterra- Porto Said; Porto Said- Aden; Aden- Bombay. Un viaggio in Australia assume la forma di tre segni a zig zag, con una linea diritta fra Aden e il continente australe. In futuro, tutti questi segni si trasformeranno in linee diritte, corrispondenti a un periodo di tempo notevolmente accorciato.                       
                                                              
Tutto questo, direte voi, è nell’aria. Lasciamo dunque da parte questo tema e consideriamo per un momento l’argomento, vasto e affascinante, degli odori con i quali il viaggiatore viene in contatto. Presto saremo ridotti a non sentire altro che zaffate di vapori di benzina ed esalazioni di olio di ricino industriale. Avrete notato che ovunque siano riuniti dei viaggiatori, ve n’è sempre uno che esclama: “Vi ricordate dell’odore che c’era nel tale o nel tal altro posto?” Andando avanti nel discorso gli potrebbe accadere di menzionare l’odore del cammello, una zaffata del quale evoca tutta l’Arabia o l’odore di uova marce che c’era a Hit, sull’Eufrate, dove Noè si procurò il catrame per la sua Arca o ancora l’odore emanato dal grapi, il pesce messo a seccare in Birmania. A questo punto, i viaggiatori si mettono a fare le fusa come tanti gatti che si rotolano nella valeriana e narra la storia che la conversazione si fa generale.

Io sostengo, fino a prova contraria, che ci sono soltanto due odori che esercitano un’attrazione universale: l’odore del combustibile che sta bruciando e l’odore del grasso che fonde. Vale a dire, l’odore di quello su cui l’uomo sta cuocendo il cibo e l’odore di quello con cui l’uomo lo sta cucinando. La varietà del combustibile va dal carbone agli escrementi animali – specialmente lo sterco di mucca – alla fibra di cocco. Il grasso va dal burro all’olio di palma, all’olio della noce di cocco, passando per il ghee. I due oli, separati o combinati insieme, sono alla base e formano il veleno di quasi tutti gli odori che aggrediscono e agitano la mente del viandante ritornato alla civilizzazione.

Il fumo di legna richiama alla memoria del maggior numero di persone la più grande varietà di ricordi sulla più vasta superficie terrestre, perciò lo metto al primo posto nella lista. E anche se i miei poteri sono limitati, penso che riuscirei a trasportare mentalmente un quarto di milioni di inglesi nell’Africa del Sud, nella zona fra lo Zambesi e Capo Agulhas, con l’ausilio di una scatola di fiammiferi, una piccola quantità di cordite, una scatola dei biscotti rotta, qualche frammento di traversine di binario trattate con il creosoto e una manciata di sterco secco di vacca. Con questi semplici attrezzi riuscirei a depositare ogni individuo nel punto esatto evocato dalla sua mente.

E quella zona è soltanto una piccola parte del mondo sul quale il fumo di legna ha sovranità assoluta. Uno sbuffo di fumo ci riporta a marce dimenticate su anonime montagne con amici di dubbia reputazione; a soste di un giorno intero sotto la pioggia vicino a fiumi straripati; a mattine meravigliose  quando eravamo giovani e accarezzavamo sogni realizzabili – spesso già realizzati- in contrade dalla luce brillante; a risvegli inquieti sotto alla bassa luna del deserto, distesi sui ciottoli duri e tormentosi; e più di tutto a quell’ora divina in cui le stelle sono tramontate ed è troppo buio per vedere e si giace con le narici impregnate dal fumo delle braci, in attesa che un nuovo orizzonte si stagli nella luce dell’alba. La magia del fumo di legna opera su ciascuno di noi secondo la nostra esperienza. Io vivo in un paese in cui il fumo di legna regna sovrano e conosco uomini, abitualmente silenziosi, che diventano di colpo sorprendentemente eloquenti, quando sono sotto il suo influsso.

Subito dopo l’odore del fumo di legna, l’odore che esercita l’attrazione più forte sullo spirito vagabondo dell’uomo è quello del grasso che fonde; l’odore, o meglio, il bouquet di odori che si raccoglie sulla soglia di uno di quei locali di Londra dove si cucina il pesce fritto. E’ un’attrazione di carattere meno vago e sentimentale di quello esercitato dal fumo di legna, ma più forte. L’odore del grasso che fonde indica che qualcosa viene cucinato e che quindi, almeno per quella sera, non si mangerà cibo in scatola. E’ un odore opulento, caleidoscopico, semitico, con un’immensa varietà di sfumature. A volte ci fa venire in mente grandi e ben forniti bazar coperti, con un leggero velo di vapore sospeso nello spazio della cupola. E ci ricorda le piccole, provvidenziali bancarelle situate ai bordi delle strade, dove per pochi centesimi si possono comprare bottiglie di salsa o un cartone di bottoni di cui si aveva un gran bisogno. Vuol dire cammelli che si inginocchiano per avere le cinghie allentate ed essere sgravati del carico; vuol dire civili che viaggiano al seguito dell’esercito e che accorrono, saltellando contenti, a far provviste di curcuma, assafetida e curry; vuol dire uomini che si strofinano le mani con la sabbia prima di immergerle negli untuosi piatti di portata fatti di peltro.

La successiva effusione di fumo potrebbe essere in puro stile Asia Centrale - denso e soffocante come se provenisse da una lucerna accesa davanti a una reliquia tibetana - un luogo sacro con il gelo nell’aria, una stella sulla cima di una montagna e un Bhityali vestito di marrone, che scivola fra gli steli secchi del granturco per andare a vendere un pollo. Può essere l’eco di un richiamo, che risveglia in noi il pulsare della notte tropicale – l’intenso chiarore lunare, le ombre scure, il verso assordante delle raganelle, le folate di gelsomino e di champac e la languida brezza sul mare fosforescente.

A me, come ad altri, un negozio di pesce fritto parla in molteplici modi dell’Oriente, dal Cairo a Singapore. Ho sentito uomini della West Coast dire che l’odore amaro della braciola cotta nell’olio di palma fa rivivere loro serate deprimenti passate alla luce di lampade a kerosene appese ai tetti di lamiera ondulata dei fabbricati delle stazioni commerciali, costruite ai bordi di fiumi dall’acqua scura e gorgogliante. Nei Mari del Sud, questa meravigliosa quinta parte del mondo, l’odore magico e predominante è quello della fibra della noce di cocco che brucia, dell’olio di cocco e del sale della barriera corallina.     
         
Questo per quanto riguarda gli odori universali. Passiamo ora a considerare quelli più particolari, quelli che esercitano un ascendente su un numero minore di persone. Ad esempio, qual è l’odore che ricorda in modo vivido a un esploratore del Polo le sue esperienze passate? Secondo me è l’odore simile a quello dell’etere, sprigionato da una lampada ad alcool, la cui fiamma lambisce e avvolge la sovrastante piastra metallica di cottura, riscaldandola – un odore non mescolato, semplice come il sacco di Falstaff. I confini della sua zona di influenza si possono situare intorno ai 70° di latitudine da entrambi i poli.

Fra i 70° e  i 60° si trova la cintura di latitudini che sono il dominio incontrastato dei venti. Queste distese desolate, coperte di ghiacci dagli instabili contorni, formano un tutt’uno nella mente degli uomini che le riconoscono dall’odore della banchisa incagliata che si ammassa, emettendo sedimento e fango strappato in fondo al mare. Una volta Melville de la Jeanette la descrisse come qualcosa che “vi avrebbe fatto scendere il cuore negli stivali – sempre che non li aveste già mangiati.”
 
Dai 60° fino al Labrador, raggiungiamo la zona del tenero legname da costruzione, con un’anticipazione di carne viva. Qui l’odore del ghiaccio incagliato si mischia all’alito puro del mare non sempre ghiacciato e all’odore acre della pelle dell’alce americano, che viene fatta passare più volte avanti e indietro attraverso il fumo di legna per conciarla - un odore caratteristico quanto quello del rimpje, preparato dalle casalinghe nelle fattorie olandesi all’altro capo del mondo.

Un po’ più a sud, i richiami odorosi si fanno più densi e complessi. Sono gli arbusti sempreverdi che trasudano al sole; il fumo del legno di betulla e della sua corteccia oleosa; la secrezione resinosa del pino mischiata al sego; l’odore dell’acqua di neve, dal colore verde lattiginoso, che scorre su strati di ciottoli; e non molto lontano, sullo sfondo, le sagome di una famiglia di puzzole che cambiano dimora. Qui – fra i 50° N. e i 65° O. circa – noi incontriamo il nostro amico cavallo, che si fa strada in mezzo al fumo prodotto dal legno marcio che brucia e che emette un odore che risveglia esso dei pure ricordi. Questo animale ci tiene compagnia mentre andiamo verso ovest, nell’aria della prateria che profuma di erba, fino a quando non diventiamo coscienti del suo odore e di quello dei suoi finimenti più di ogni altro odore presente nel territorio.    
  
C’è un piccolo motivo formato da cinque note che ci sconvolge il cuore: il cavallo; la vecchia selleria; il caffè; la pancetta fritta e il tabacco (da masticare e  in sigarette avvolte nelle foglie di mais). Esso può trasportare un uomo dagli aridi altipiani del Selkirks o da quelli umidi dell’Oregon, sopra alla rossa polvere speziata e a quella bianca, attraverso il profumo dell’artemisia e a quello pungente e pepato delle euforbie, giù nel torrido sud, dove aleggia un odore di capra e dove i fagioli fritti, l’incenso e l’orribile odore metallico del pulque*, lo fanno approdare alle rive coperte da misere mangrovie, nel fetido odore della febbre gialla fino a quando, lasciato il cavallo sulla spiaggia, i tropici non gli risollevano il morale con l’odore aspro e salutare del corallo bruciato dal sole e del pesce essiccato.


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